martedì 12 maggio 2015

#Ringraziauninsegnante

Ho avuto molti insegnanti nella mia carriera scolastica. Buoni e cattivi, preparati e non preparati. Di sicuro c'è che ne ho avuti molti. Come quell'anno, al liceo, che la mia insegnante preferita andò in maternità e arrivò la supplente. Che però dopo una settimana si ruppe il piede, rendendo necessario l'arrivo della supplente della supplente.
Davvero tanti insegnanti.

Molti di questi non li dimenticherò mai, non perché fossero bravi, al contrario. Non dimenticherò mai quanto NON mi hanno fatto imparare. Ci sono di mezzo materie diverse, dal latino all'inglese, dalla storia dell'arte all'educazione fisica. Si sa, non si può essere sempre fortunati. Capita di trovarsi davanti insegnanti incapaci. Capita perché capita di trovarsi davanti persone incapaci, come ci sono in ogni ambito della società e come, ahimè, ci saranno sempre. Questo però non può bastare a colpevolizzare l'intera categoria. Non può essere risolto con un decreto da Far West, con il preside nei panni dello sceriffo.

Ho avuto molti insegnanti e alcuni di questi non smetterò mai di ringraziarli.

Ringrazio Fausta, la maestra delle elementari che ci leggeva le fiabe irlandesi e i racconti di Rodari e ci spronava gentilmente a diventare grandi nella maniera migliore possibile.
Ringrazio Salvo, che alle medie mi ha fatto capire la matematica e si rivolgeva a noi con una dolcezza infinita.
Ringrazio Maria, che mi ha insegnato che i libri sono dei campi di battaglia sui quali scrivere, appuntare, sottolineare, sottolineare di nuovo, scrivere ancora, se serve a farti studiare meglio. I libri di scuola vanno vissuti.
Ringrazio Pina, che mi ha insegnato molto poco di storia della musica, ma tanto di musica vera, cantata, musica che non avrei cantato o mai nemmeno conosciuto senza il suo lavoro per creare il coro della scuola. Ho scoperto il mio amore per il canto grazie a lei, grazie a lei ho cantato Mascagni, Mozart, Verdi.
Ringrazio Cristina, che mi ha insegnato il francese così bene da avermi fatto dimenticare quanto fosse severa. Così bene da aver reso indelebili nella mia mente "L'albatros" di Baudelaire e la biografia di Tahar Ben Jelloun.
Ringrazio Angela, che al liceo lodava i miei temi d'italiano e mi permetteva di sbizzarrire la mia fantasia dando come traccia base una singola frase tratta da "Marcovaldo". La sua disponibilità all'ascolto e la sua dolcezza erano insostituibili.
Ringrazio Rocco, che, seppur molto severo, mi ha insegnato così bene la letteratura greca che credo che non potrò mai più dimenticarla. E' stata l'unica materia che io e i miei compagni non abbiamo dovuto ripassare per la maturità, l'avevamo praticamente scolpita in mente. E l'ultimo anno è stato pure simpatico.
Ringrazio Salvatore, un altro Salvatore e anche lui prof di matematica, che al liceo mi ha permesso di capire la cosa che ho odiato più di tutte, la fisica, sempre con la battuta pronta e con un bagaglio di cultura generale che gli ha permesso di farci da guida in un museo durante la gita in Spagna.
Ringrazio Alfredo, con il quale ho litigato spesso ma sempre ironicamente, quasi per prenderci in giro a vicenda, discutendo sulla mia opinione dell'inutilità di Kant e sul suo amore, per me incomprensibile, per Bach e il Clavicembalo ben temperato; con il suo ostinarsi a chiedermi degli approfondimenti sugli argomenti trattati se volevo prendere un voto superiore, grazie ai quali ho capito il mio grande amore per la storia, del Novecento in particolare.

Forse sono una minoranza rispetto agli insegnanti che ho incontrato negli anni, ma devo e voglio ringraziarli di cuore, uno per uno e per il resto della mia vita.
 
Questo potrebbe dimostrare quanto una minoranza, seppur minoranza, conti davvero.

mercoledì 8 aprile 2015

Macelleria italiana - le parole sono importanti.

Le parole sono importanti, diceva Nanni Moretti.
Le parole hanno un peso. Possono far bene o far male. Possono salvare o condannare.
 
Italia, Genova, luglio 2001. 14 anni fa.
I fatti di Genova mi avevano sconvolto subito dopo il loro accadimento, anche se avevo appena 8 anni. Hanno continuato a sconvolgermi negli anni seguenti. Ricordo quanto mi piaceva guardare alla tv "Blu notte" di Carlo Lucarelli, e con quanta attenzione guardai la puntata dedicata proprio ai fatti del G8 di Genova 2001.
Sentire le testimonianze delle vittime - le parole sono importanti - mi congelava, mi atterriva. Eppure non era un film dell'orrore quello che avevo davanti. E orrore potrebbe non essere la parola giusta, potrebbe non essere abbastanza - le parole sono importanti.  
 
 
 
"Assalto alla Scuola Diaz". Assalto e scuola sembravano due parole che non avrebbero dovuto andare d'accordo, che almeno in Italia (così credevamo) non avrebbero dovuto essere accostate - le parole sono importanti.
Quella notte, per molti fu l'inferno. Chi ha subito i pestaggi, le sevizie, le violenze, le umiliazioni, le ferite, i traumi, le botte, il dolore, le fratture, la paura, riassume tutte queste parole in una metafora: macelleria messicana - le parole sono importanti.
 
Che quell'espressione sia stata coniata, riguardo alla Diaz, da un poliziotto, il vicequestore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma Michelangelo Fournier, poco importa. Anzi, fa capire quanto scempio gli sia apparso davanti agli occhi e da chi era stato messo in atto.
 
Una delle parole ad aver fatto più male è stata sicuramente prescrizione: questo è tutto ciò che lo Stato Italiano è riuscito a fare per punire i colpevoli e risarcire le vittime. Impunità. Come un secondo assalto, ancora più grave perché legale.
 
 
Tante parole - più o meno importanti - sono state dette in questi anni sui fatti di Genova. Le più importanti sono quelle pronunciate qualche giorno fa dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea, che ha definito l'assalto alla Diaz tortura.
Italia, Genova, luglio 2001. Non Messico, inizi del '900. Italia. Eppure, tortura c'è stata. Immotivata, sprezzante, soverchiatrice, immonda, vergognosa, gratuita tortura. Che si debba cominciare a chiamarla macelleria italiana? Saremmo davvero fieri di questo made in Italy?
 
Le parole sono importanti. E per questo, dovremmo indignarci tutti.

#vergognadiStato #chiamiamolatortura

martedì 3 febbraio 2015

Un mese dopo: Je suis encore Charlie




Non conoscevo Charlie Hebdo. Nonostante, come ho appreso in seguito, fosse una rivista molto nota non solo in Francia e con una storia importante, giorno 7 gennaio mi è apparsa come nuova. Un giornale che non conoscevo. Spero che la mia età possa servirmi da scusante. Prima dei vent'anni è difficile occuparsi di mondi ancora lontani.
 
ATTACCO A CHARLIE HEBDO. 11 MORTI A CHARLIE HEBDO. TERRORISTI ALLA SEDE DEL SETTIMANALE FRANCESE CHARLIE HEBDO. Informazioni come queste hanno cominciato a bombardarmi la mente senza che io sapessi bene di cosa si stava parlando.
Terroristi a Parigi? 11 morti? Cos'è Charlie Hebdo? Che sta succedendo?
 
Sono rimasta incollata al televisore tutto il giorno e il giorno seguente e quello dopo ancora. Quando l'informazione televisiva, soddisfatta del proprio lavoro di tre giorni di diretta ininterrotta e sicura della morte degli attentatori, ha lasciato sbiadire le ultime notizie riguardo al giornale, mi sono attaccata ad Internet e ho scavato più a fondo. L'importante era sapere cosa sarebbe successo da lì in poi.
Non sta a me, ultima arrivata, fare un excursus sulla storia di Charlie Hebdo. Ben numerose pagine ci vorrebbero e ben più esperti e affezionati di me.
 
Ciò che però mi ha subito colpito sono state le foto dei vignettisti e collaboratori uccisi. Non riuscivo a staccare gli occhi da quelle immagini. La dimensione umana del soggetto è la prima cosa che cerco di conoscere. Chi erano queste persone? Chi sono state? Non conoscevo bene nemmeno i loro nomi e anche leggendoli negli innumerevoli flash dei telegiornali, non sapevo collegare i nomi alle facce. Ma volevo sapere.

Mi ha colpito subito uno di loro: capelli scuri, occhiali e quasi sempre un sigaro in bocca. Un viso bello, tranquillo, appena sorridente. Ho pensato che non potesse avere più di 50 anni e mi sono chiesta se fosse sposato e avesse dei figli. Era Tignous, Bernard Verlhac, 58 anni, vignettista.
 
Il ragazzo col pugno alzato, che la maglietta a righe blu ringiovaniva ancora di più, mi ha fatto tenerezza per la leggera malinconia che mi sembrava di leggere nei suoi occhi, dietro quelle lenti così spesse. Me lo immaginavo da bambino, mingherlino, biondo e pallido, con degli occhialoni troppo grandi per la sua faccia. Buono, timido e gentile. Non sapevo fosse Charb, Stéphane Charbonnier, 47 anni, direttore di Charlie Hebdo.
 
Il signore con il caschetto alla Beatles mi ha fatto sorridere. Che viso simpatico! Doveva essere un gran mattacchione, eternamente giovane, tant'è che quando ho scoperto che aveva 77 anni non volevo crederci. Ho scoperto essere Cabu, Jean Cabut, vignettista e mito di Charb.
 
Essere uccisi ad 80 anni è una cosa talmente ridicola che non sembra possibile. Quel placido e bonario signore, evidentemente il più anziano di tutti, sembrava dire dalla sua foto "Ero troppo vecchio per morire". Era Wolinski, George Wolinski, vignettista.  
 
Sono state le prime foto ad essere diffuse da tutti i telegiornali nazionali, ma non erano che alcune delle vittime. Philippe Honoré, vignettista, non era ancora morto. Lo erano purtroppo Bernard Maris, economista e editorialista, Elsa Cayat, psichiatra,  Mustapha Ourrad, correttore editoriale, Michel Renaud, fondatore del festival Rendez-vous du Carnet de voyage, Frederic Boisseau, addetto alla manutenzione, Ahmed Merabet, agente di polizia in servizio, Franck Brinsolaro, ufficiale del servizio di protezione, guardia del corpo di Charb.
 
 
 
 
Le foto però continuavano a balzarmi davanti agli occhi. Dovevo conoscere di più.
Ho cominciato a cercare informazioni sulla storia del giornale, sulla storia dei suoi collaboratori, ho letto e visto interviste a colleghi, sopravvissuti, familiari. E' diventata come un'ossessione. Non riuscivo a capire perché una cosa del genere fosse successa e per capire dovevo conoscere.

Così ho scoperto come il giornale avesse subito un processo nel 2007 per insulti alla comunità musulmana, dopo aver pubblicato, uno dei pochi giornali in Francia, le vignette danesi dello Jyllands-Posten che ritraevano Maometto. La causa, vinta dal settimanale, è raccontata nel film documentario "C'est dur d'etre aime par des cons" di Daniel Leconte, che prese spunto per il titolo da una famosa vignetta di Cabu in copertina ad uno dei più contestati numeri della rivista. L'ho guardato in francese, ringraziando le mie basi scolastiche, per saperne di più. 
Ho scoperto che nel 2011 la sede di Charlie Hebdo era stata incendiata da due bombe Molotov a seguito del titolo, Charia Hebdo, e della copertina, disegnata da Luz, che ritraeva Maometto e le parole "100 frustate se non muori dalle risate". Ho scoperto che nel 2012, Charlie Hebdo aveva iniziato una pubblicazione speciale intitolata "La vie de Mahomet", a seguito della quale Charb ricevette minacce di morte su un sito jihadista.  
E poi il 7 gennaio 2015.
 
 
 
 
Più leggevo, più non capivo i perché. I perché, più d'uno.
Perché un giornale satirico non dovrebbe fare satira su ogni cosa?
Perché la satira religiosa è accusata di vilipendio?
Perché non si può disegnare un profeta che è stato uomo prima di tutto?
Perché ad una sedicente offesa alla propria fede si risponde con un massacro?
Perché, se un argomento, un giornale, una vignetta non sono di gradimento, non limitarsi ad ignorarle, piuttosto che scagliarvisi contro in maniera violenta?
Perché uccidere delle persone in nome di un dio?
Perché accettare la libertà di stampa, d'espressione e di satira è per qualcuno così inaccettabile?
 
Non c'è nessuna giustificazione per quello che è successo. Non c'è nessuna possibilità di dire "ma". Viva la satira, ma. Non si uccide, ma. Si può disegnare chiunque, ma. Il "ma" cancella ogni buona intenzione.
Ho sentito commenti aberranti riguardo a ciò che è successo. Ho sentito una professoressa di religione paragonare la gravità della morte dei vignettisti alla gravità delle offese recate dalle vignette alla fede islamica (e non solo quella).
Ho sentito dire "se la sono cercata". Ho sentito dire "la satira deve avere limiti". Ho sentito dire cose che non avrei voluto sentir dire.
 
Non da subito, sia chiaro. Subito dopo l'attentato, l'emotività del momento ha spinto tutti a schierarsi dalla parte dei più deboli, delle vittime e dei sopravvissuti. La morte fa sempre pena. Tutti a esecrare quanto accaduto, a voler dire basta alla violenza e viva alla libertà di stampa. Gli ipocriti hanno indossato una bella maschera di dolore per far parte anche loro della scena. Tutti a dire Je suis Charlie, a piangere lacrime di coccodrillo, a solidarizzare.
Laddove la solidarietà è sincera, mille e mille volte si dovranno vedere le sue manifestazioni. Chi credeva veramente in quello che diceva, doveva solidarizzare. Tutti gli altri no, non ne avevano il diritto. "C'est dur d'etre aimé par des cons", è dura essere amati da dei coglioni. Io aggiungerei che è dura anche essere odiati e uccisi da dei coglioni. E che, in fondo, è dura anche esserlo, dei coglioni.
 
Io non conoscevo Charlie Hebdo. L'ho conosciuto in un brutto momento, ma ciò che mi ha lasciato è indelebile. Mi ha cambiata, ha rivoluzionato il mio modo di pensare. Mi ha fatto capire quanto sia importante avere delle idee ferme e chiare su certe questioni.
Ho visto tutte le vignette che sono riuscita a trovare su Internet e non sono stata offesa da nessuna. Alcune ci ho messo un po' a capirle, ma bisogna anche considerare la lingua diversa e il senso dell'umorismo diverso, da paese a paese. Ma non sono stata offesa. Anzi, ho riso. Ho riso anche vedendo derisa la trinità, Gesù, la Madonna. Non sono rimasta turbata né sono stata fulminata all'istante dalle saette di Giove.
L'unico pensiero era quanto fossero irriverenti e caustici Charb, Cabu, Wolinski, Tignous, Honoré e quanto fosse giusto che lo fossero. Guardando quelle vignette, ho capito quanto sia importante difendere le proprie idee. Laicità, satira, sberleffo, ironia, irriverenza. Sono tratti umani presenti nella nostra letteratura da secoli e sempre soppressi e ostacolati. Per questo è importante riportarli in auge. Sono la parte più genuina del nostro pensiero, perché sono veri, vivi, potenti nella nostra mente.

Accusato di irresponsabilità, Charlie Hebdo era uscito con un numero che campeggiava in copertina "JOURNAL RESPONSABLE". Contenuto: due titoli. Tutte le vignette in bianco. Come a dire che se non si osa a fare quello in cui si crede, non rimane nulla da mostrare. Non serve a niente essere responsabili se ciò vuol dire non pensare con la propria testa.
 
Io credo nella satira, nella laicità, nella libertà di espressione, nell'irriverenza verso tutti i poteri superiori, nell'ironia, nella presa in giro.
Je suis encore Charlie, et je serai Charlie toujours.
 
 
 
 
 
Allego qui alcuni video che mi hanno aiutato a conoscere meglio questa storia...e che mi hanno molto commosso.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


 

giovedì 1 maggio 2014

Gli europei di Hollywood

Hollywood è ormai da decenni la Mecca del cinema internazionale, oltre che americano. Numerose e splendenti sono le star che ne fanno parte e che la popolano, la maggior parte di queste statunitensi, come è normale che sia. Tanti però sono anche gli attori e le attrici europei che in tempi recenti sono entrati a far parte del firmamento hollywoodiano.
 
 


Oscar 2008, momento storico: solo europei i vincitori nelle quattro categorie principali. Da sinistra, l'inglese Daniel Day Lewis Miglior Attore Protagonista per "Il petroliere", la scozzese Tilda Swinton Migliore Attrice non protagonista per "Michael Clayton", la francese Marion Cotillard Migliore Attrice Protagonista per "La vie en rose" e lo spagnolo Javier Bardem Miglior Attore non protagonista per "Non è un paese per vecchi".
 
 
Naturalmente, la storia del cinema europeo negli Usa ha origini nei tempi più antichi, quando il cinema era ancora un neonato dalle grandi speranze: basti pensare a registi come Lubitsch e Lang, stelle come Charlie Chaplin, Vivien Leigh, Jean Gabin, Greta Garbo. Più recentemente troviamo Marcello Mastroianni, Sophia Loren, Maggie Smith, Vanessa Redgrave, Alain Delon, Jean-Louis Trintignant, Ingrid Bergman.
Oggi molti sono gli attori europei accolti ad Hollywood che, invece che attenuare le proprie origini al contrario le esaltano, facendone una caratteristica della propria recitazione ma non rimanendone comunque schiavi. Ecco alcuni esempi di attori europei che amo molto e che Hollywood ha avuto la fortuna di conoscere.
 
Nell'area tedesca, troviamo quattro attori che, una volta notati, gli americani non si sono fatti scappare.
Christoph Waltz è il mio preferito: austriaco che parla fluentemente inglese e francese, ha usato questa sua capacità più volte nei film hollywoodiani ai quali ha preso parte. Lavora in Europa da decenni, ma il mondo si accorge di lui con "Bastardi senza gloria" e il suo terribile personaggio, il colonnello delle SS Hans Landa: risultato, un Oscar (e tutti gli altri premi esistenti nella categoria Miglior Attore non protagonista) e Premio al Miglior Attore a Cannes. Poliglotta anche in "Django Unchained", che lo lega ancor più a Quentin Tarantino (come potrebbe Quentin farselo scappare?) e gli regala il secondo Oscar, recita con un perfetto accento newyorkese degno di Woody Allen in "Carnage" di Polanski, la sua terza interpretazione dopo Schultz e Landa che adoro di più.
Raffinato, preciso, elegante, europeo quanto basta e fiero di esserlo, felice di Hollywood, una volta ha detto "Un mio amico mi ha detto di fare attenzione, che ad Hollywood mi avrebbero spremuto come un limone. Beh, a me piace stare lì e succo da vendere ne ho ancora molto...": la sua provenienza lo ha gratificato e aiutato senza oscurarne l'internazionalità.
Daniel Bruhl è il secondo: appena trentenne ma già attore esperto, ricordo di averlo conosciuto con "Good bye, Lenin!", film stupendo, da proiettare in tutte le scuole. Ancora molto legato al suo continente di provenienza (è perfettamente europeo, essendo per metà tedesco e per metà spagnolo), in America si sta facendo strada, come dimostrano film come "Rush" e "Bastardi senza gloria", nel primo nella parte di austriaco, nel secondo nella parte di tedesco: europeo nei ruoli, internazionale nella fama.
Terzo è Michael Fassbender: tedesco da parte di padre e irlandese da parte di madre, pienamente europeo anche lui, trova la sua giusta visibilità internazionale grazie al legame con il regista Steve McQueen, che gli affida ruoli centrali in tre dei suoi film, tra cui "Shame" che gli vale la Coppa Volpi alla Mostra di Venezia. Brad Pitt, che lo ha conosciuto su set di "Bastardi senza gloria", disse di lui "E' un grande, questo ragazzo farà grandi cose": ed eccoli insieme in "12 anni schiavo", di cui Brad è produttore e in cui si è riservato un piccolo ma importante ruolo nella vicenda di Solomon Northup, e in cui Fassbender è un magnificamente terribile padrone, Edwin Epps, ruolo che è valso al bel Michael una candidatura agli Oscar come attore non protagonista. Scommetto che Pitt abbia scelto personalmente Fassbender, in memoria delle sue parole...
Quarta ma non meno importante è una donna, la bella è brava Diane Kruger: tedesca nei lineamenti e nel nome, ha partecipato a produzioni americane, francesi, tedesche, spagnole senza alcun problema, alcune volte sottolineando la sua provenienza (vedi "Bastardi senza gloria", dove è Bridget von Hammarsmarck, una stella del cinema hitleriano, o "Io e Beethoven", dove interpreta una giovane compositrice austriaca), altre volte nascondendola così bene che quasi ci si dimentica, ad esempio in "Troy", dove interpreta al meglio una bellezza greca come Elena di Troia.
 
Nell'area francese, i miei miti sono tutte donne, partendo dalla divina Marion Cotillard: oltre alla sua bellezza semplice e naturale, a farla una grande attrice è la bravura e la dedizione che infonde nelle sue interpretazioni, prima fra tutte il ritratto di Edith Piaf in "La vie en rose", film francese ma internazionale, che infatti le regala il suo primo - spero - meritatissimo Oscar. La sua provenienza francese si esprime in film quali "Amami se hai il coraggio" e "Una sapore di ruggine e ossa", ma non è un marchio indelebile, infatti non si nota in grandi ruoli ricoperti ad Hollywood: "Inception", "Nine", "Il cavaliere oscuro - Il ritorno" e "Contagion". Sfoggia la sua "francesità" (esisterà questo termine?) con grazia e garbo, come se dicesse al mondo "Je suis francaise, mais je peux faire tout!".
Più francese è Mélanie Laurent ma non per questo meno internazionale: è una vera perla che non aspetta altro che un bel gioiello d'oro in cui essere finalmente incastonata per essere sfoggiata nel migliore dei modi. Le sue interpretazioni ne "Il concerto", nel ruolo della violinista Anne-Marie Jacquet, e in "Vento di primavera" sono prettamente francesi ma visibili anche all'estero, ma è con "Bastardi senza gloria", dove interpreta Shoshanna - quella che secondo me potrebbe essere considerata una delle più belle eroine del cinema contemporaneo -  e "Now you see me", nel ruolo di una detective, che Melanie va all'estero, sempre fiera delle proprie origini.
Che dire di Audrey Tautou? Il francesissimo "Il favoloso mondo di Amelie" le ha regalato immediata visibilità internazionale, che è continuata con l'altrettanto francesissimo "Coco avant Chanel" e si è affermata definitivamente con "Il codice Da Vinci" di Ron Howard, che ha come caratteristica quella di scegliere un cast molto variegato quanto a nazionalità.
Completa il gruppo Lea Seydoux, la più giovane, che pur con i francesi "La vie d'Adele" e "La bella e la bestia" si è fatta ben notare in America, dove aveva già lavorato per importanti produzioni come "Robin Hood", "Bastardi senza gloria" e "Midnight in Paris", sempre nel ruolo di una francese, ma senza che ciò la limitasse.
 
Per la Spagna, è una coppia a rappresentare il cinema: Javier Bardem e Penelope Cruz, premi Oscar nel 2008 lui e nel 2009 lei, entrambi nella categoria dei non protagonisti. Io li ho adorati in "Vicky Cristina Barcelona" di Woody Allen, film che ha regalato l'Oscar a Penelope: i due interpretano due spagnoli, un marito e una moglie (profetico!) molto particolari. La loro nazionalità è fondamentale per questo film, ma non li lega esclusivamente a ruoli spagnoli: Javier possiamo vederlo in "Non è un paese per vecchi", che gli è valso l'Oscar, "The counselor", "To the wonder", "L'ultimo inquisitore", grandi produzioni internazionali, e contemporaneamente in perle del cinema spagnolo come "Biutiful", "Carne tremula" e "La teta y la luna". La sua provenienza è sfruttata al meglio dai registi che lo dirigono, ma non lo rende solo un interprete spagnolo.
La bella Penelope, durante il suo discorso d'accettazione dell'Oscar, ha detto "Vengo da un piccolo paese in cui questa cerimonia [la Notte degli Oscar] era vista come un sogno irraggiungibile e io stessa stavo in piedi tutta la notte per poterla vedere": il suo sogno si è avverato, grazie alla sua bravura e alla sua figura di attrice internazionale, che anche in Italia, come dimostra "Non ti muovere" di Castellitto, ha avuto grande fortuna. "Nine", "Venuto al mondo", "Bandidas", "The counselor", "Pirati dei Caraibi" l'hanno proiettata nel panorama internazionale, sfruttando certe volte la sua nazionalità, che lei usa come una propria caratteristica costruttiva e non limitativa.
 
L'Europa del nord ha i suoi degni rappresentanti in tre attori che mi piacciono molto: Noomi Rapace e Stellan Skarsgard, svedesi, e Mads Mikkelsen, danese.
Noomi Rapace si è fatta notare nel, seppur svedese, film internazionalmente noto "Uomini che odiano le donne", tratto dal best seller del connazionale Stieg Larsson, dove interpreta una perfetta Lisbeth Salander: ha vestito i suoi panni anche negli altri due film della trilogia, "La ragazza che giocava col fuoco" e "La regina dei castelli di carta". Hollywood, stregata dal primo film, ne ha subito prodotto una sua versione (meno bella a mio parere) con protagonisti Daniel Craig e Rooney Mara. Noomi intanto (spagnola da parte di padre), continuando a recitare in produzioni europee come lo struggente "Beyond", approda a Hollywood con film quali "Sherlock Holmes - Gioco di ombre", "Dead Man Down" e "Prometheus": la sua nazionalità non è evidenziata e anzi riveste perfettamente i panni di una gitana proprio in "Sherlock Holmes".
Stellan Skarsgard è onnipresente, specialmente negli ultimi decenni: la sua partecipazione a film internazionali, iniziata con "Will Hunting", non si arresta più. Lo vediamo in "Thor", "Melancholia", "Amistad", "Mamma mia!", "Angeli e demoni", "Millenium", "Pirati dei Caraibi": sempre ruoli secondari, ma importantissimi e magnificamente interpretati. La sua provenienza nemmeno si nota.
Mads Mikkelsen, che ho adorato ne "Il sospetto" (titolo originale sarebbe "La caccia", molto più appropriato) e che gli è valso il Premio per il Migliore Attore al Festival di Cannes, esordisce al cinema già a livello internazionale, con il primo film della trilogia "Pusher". Continua nel cinema nazionale e stringe sempre di più i rapporti con Hollywood, che si notano con la sua partecipazione a "Casino Royale", "I tre moschettieri", "Scontro fra titani" e la riuscitissima serie tv "Hannibal", nelle vesti del temibile dottor Lecter: una trasposizione che rispetta molto il romanzo dal quale è tratta.
 
Per quanto riguarda la terra di Sua Maestà, gli esempi sono davvero troppo numerosi, anche per la maggiore facilità degli attori britannici di approdare al cinema americano per la vicinanza della lingua. Ma guai a confondere un inglese con un americano! Mi limito ad indicarne i nomi e il perchè mi piacciono tanto.
James McAvoy, Ewan McGregor e Tilda Swinton, scozzesi, sono ormai delle icone internazionali: il primo è indimenticabile in "Espiazione", il secondo in "Moulin Rouge", e la fantastica Tilda è un'indimenticabile Strega Bianca ne "La cronache di Narnia", ma tanti altri sono i ruoli nei quali stanno a meraviglia.
Tipicamente londinesi sono Daniel Day Lewis, Benedict Cumberbatch, Rebecca Hall, Paul Bettany e Emily Blunt: Daniel Day Lewis è l'unico attore nella storia ad aver vinto tre Oscar nella stessa categoria, quella per il Miglior Attore Protagonista: le sue interpretazioni impeccabili ne "Il mio piede sinistro", "Il petroliere" e "Lincoln" gli hanno permesso di conquistare questo meritatissimo primato; Benedict Cumberbatch, perfettamente calato nel ruolo del suo concittadino Sherlock Holmes nell'omonima serie tv, negli ultimi anni è diventato patrimonio internazionale, come dimostra il suo ruolo in "12 anni schiavo"; Rebecca Hall, figlia di un regista shakespeariano e cresciuta in quel mondo, si ormai affermata anche ad Hollywood, come dimostrano "The prestige", "Vicky Cristina Barcelona", "Iron Man 3" e "Transcendence"; Paul Bettany è un perfetto monaco spagnolo ne "Il codice Da Vinci", un tennista inglese in "Wimbledon", una visione americana in "A beautiful mind"...cosa non può fare? Emily Blunt, infine, è una splendida regina Vittoria in "The young Victoria", ma anche un'isterica segretaria newyorkese ne "Il diavolo veste Prada": perfetta.
Londinese è anche la bella Rachel Weisz, di origini ungheresi da parte di padre e austriache da parte di madre, quindi tipicamente europea, ma nota a livello internazionale: la sua vittoria di un Oscar per "The Constant Gardener" ne è la prova.
Fieramente britannici sono Kate Winslet, Ralph Fiennes, Emma Watson, Keira Knightley, Colin Firth e Daniel Craig; fantastici tutti, famosissimi in tutto il mondo: l'Oscar per "The Reader" è solo la punta di diamante della carriera della splendida Kate Winslet; Ralph Fiennes è un interprete sublime, indimenticabile in "Schindler's List" e nella saga di "Harry Potter"; Emma Watson, da bambina prodigio di "Harry Potter", ha saputo gestire la sua carriera, ancora agli inizi ma già importante, in maniera eccellente, continuando gli studi e vivendo in maniera tranquilla e la sua carriera in fiore è il risultato; Keira Knightley è patrimonio nazionale, una splendida attrice che Hollywood non si è fatta scappare, come "Pirati dei Caraibi", "Anna Karenina", "A Dangerous Method" e tanto altro dimostrano; Colin Firth è un perfetto gentleman, tipicamente inglese, e la sua interpretazione del re Giorgio VI ne "Il discorso del re" è stata impeccabile, da Oscar, ma Colin non si ferma a questo; Daniel Craig, l'ormai affermato James Bond, visita spesso Hollywood, come si vede da "Millennium", "Era mio padre", "Munich".
Gallese è il meraviglioso Christian Bale, uno dei più bravi e versatili attori in circolazione: le produzioni internazionali spaziano dallo spagnolo "L'uomo senza sonno" (con i suoi 25 chili persi è spaventosamente bravo), al tedesco "L'alba della libertà", al cinese "I fiori della guerra", fino agli americanissimi "The prestige", la trilogia del Cavaliere Oscuro di Nolan, "The Fighter", che gli ha donato il suo primo Oscar, "L'impero del sole", in cui recita ad appena 13 anni diretto da Spielberg, "American Psycho", nei panni del terrificante newyorkese Patrick Bateman.
Irlandese ma nata a New York è infine Saoirse Ronan, giovanissima attrice destinata a fare una lunga carriera: apparsa in "Espiazione" a soli 13 anni, partecipa a grandi produzioni quali "Houdini - L'ultimo mago", "Amabili resti" e "Gran Budapest Hotel". La sua magnifica strada è appena cominciata.
 
Quanto all'Italia, due bravissimi attori non sono indifferenti al fascino del cinema internazionale: Valeria Golino e Pierfrancesco Favino. La bella napoletana Valeria ha recitato accanto a Tom Cruise e Dustin Hoffman (!!!) in "Rain Man", accanto a Tim Roth in "Four Rooms", con Salma Hayek in "Frida" e molto altro ancora, senza interrompere la sua fulgida carriera italiana.
Pierfrancesco Favino è uno dei miei attori italiani preferiti: "Una notte al museo", "Angeli e demoni", "Le cronache di Narnia", "Rush", "Miracolo a Sant'Anna" dimostrano come la sua bravura sappia valicare i confini nazionali, senza confinarlo a ruoli tipicamente italiani.
 
L'Europa è una fucina di talenti che il mondo non può dimenticare.

giovedì 12 dicembre 2013

Ai confini della decenza

Ho rubato il titolo ad una divertente parodia dei tempi di "Avanzi" di Serena Dandini, programma che dovrebbe assolutamente essere riscoperto.
 
Il titolo scaturisce dalla reazione che ho avuto a questa notizia: "Denunciata per violenza sessuale la NoTav che baciò il poliziotto", da laRepubblica.it.
All'inizio credevo fosse uno scherzo, una di quelle notizie finte, quelle che molti siti di satira creano per ironizzare sull'assurdità di certe notizie, quelle vere, che spesso sentiamo o leggiamo. Ma il sito era La Repubblica, non stavo leggendo un post di Spinoza.it o Lercio. Dunque la notizia è vera.
 
Franco Maccari, segretario generale del sindacato di Polizia (Coisp), intervistato alla trasmissione di Radio24 "La Zanzara", ha annunciato: “Ho denunciato la No Tav che ha baciato il casco del poliziotto [...] Se io la bacio sulla bocca, non é reato? Se fosse stato un poliziotto a baciare un manifestante a caso, sarebbe scoppiata la terza guerra mondiale”.
Speravo fino alla fine di aver letto male. Ma ci vedo ancora bene.
In questo paese, un uomo che picchia sua moglie non viene fermato e anche quando viene fermato non è sbattuto direttamente in galera, vendicandosi spesso, troppo spesso, sulla donna, nei modi che abbiamo imparato a conoscere. Invece una ragazza che ha inscenato una provocazione (con un BACIO, che violenza!) viene denunciata per violenza sessuale.

Il giovane poliziotto come Raachida Lakhdimi, Sandra Lundarini, Rosa Manna, Stefania Cancelliere, Alessandra Sorrentino, Antonina Nieli? Questi sono solo alcuni nomi della lista, fin troppo lunga, pubblicata dall'UDI, l'Unione Donne in Italia, delle vittime di femminicidio dell'anno 2013.
Va bene, ci sono le dovute differenze: il poliziotto è vivo, queste donne sono morte. Ma proprio perché c'è questa abissale differenza, l'aver usato il termine "violenza sessuale" ha dell'indecente. Paragonare delle situazioni molto diverse rischia di sminuire il significato vero di violenza sessuale, che, quando c'è, si aspetta la morte della vittima per certificarla.
Bisogna dare più peso alle parole, che sono importanti, come diceva Nanni Moretti.

Il Coisp è quel sindacato che ha manifestato sotto le finestre dell'ufficio di Patrizia Aldrovandi, madre di Federico, ucciso da poliziotti. Dato che il bacio di Nina al poliziotto è violenza sessuale, cosa sarà allora la morte di Federico? Potrebbero chiamarla "constatazione amichevole" o "confronto di opinioni". Certo, potrebbero chiamarla così.
Tanto, è ormai evidente come il Coisp dia il giusto peso alle parole.
Proporrei una sua collaborazione alla nuova edizione del Vocabolario della Lingua Italiana. Potremmo vederne delle belle.



 

 

mercoledì 11 dicembre 2013

Signori, mi presento.

Vi starete chiedendo chi è Hélène Malaussene  e, soprattutto, che cosa scrive. I lettori di quale genio che è secondo me Daniel Pennac avranno riconosciuto il cognome Malaussene, cognome di Benjamin e della sua strampalata famiglia, protagonista della serie di romanzi che inizia con “Il paradiso degli orchi”. Per me sono veri capolavori: la loro ironia è disarmante e non puoi far altro che riflettere ma senza smettere di sorridere.

Benjamin è un “capro espiatorio” di mestiere, si addossa per lavoro tutte le colpe del mondo. E’ un eroe romantico, o un antieroe, se osservato da un diverso punto di vista. Resta il fatto che è uno dei personaggi più divertenti e allo stesso tempo commoventi della letteratura contemporanea.

Mi chiamo Elena e dato che il mio nome in francese è Hélène, la rima con Malaussene mi è subito piaciuta. Quindi mi sono unita alla famiglia, prendendone il cognome, come se fossi un’ennesima sorella di Benjamin, una sorella adottiva. Spero che alla famiglia non dispiaccia.

Une soeur plus ;)